Il mio esodo: angoscia dell’abbandono! di Annamaria Zennaro Marsi

Ecco uno struggente racconto di Annamaria Zennaro Marsi, di Cherso. La ringraziamo per questo originale pezzo di storia d’Italia del 1948. È quella storia negata, offesa e messa in silenzio perfino dagli storici più quotati. Certi esuli hanno potuto parlare liberamente solo dopo la legge del Giorno del Ricordo, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

La redazione del blog per facilitare il lettore, mediante alcuni dizionari dell’idioma istro-veneto (come il Botterini, Bracco, Samani e il Corso Regeni) si è permessa di spiegare in parentesi riquadrate il significato in lingua italiana di alcuni vocaboli del dialetto istro-dalmata.

Annamaria Zennaro Marsi è autrice di Vita a Palazzo Silos, edito da Bora.la di Trieste, nel 2021, sulle vicissitudini del Campo profughi del Silos a Trieste. Con la sua famiglia chersina è stata esule tra i box del Silos dal 1948 al 1955. Nel blog dell’ANVGD di Udine il 27 marzo 2021 ha pubblicato “El bisato nel pozzo. Una storia di Cherso”, un intenso racconto dal piglio etno-antropologico, oltre che di cultura popolare. Il brano che si diffonde ora, intitolato Il mio esodo: angoscia dell’abbandono! è stato composto dall’Autrice nel 2006, per il giornale semestrale della Comunità chersina, che purtroppo ha smesso le pubblicazioni in seguito alla morte di Luigi Tomaz. L’Autrice da poco ha rivisto il testo e ce lo ha inviato per il nostro blog. La fotografia di copertina è intitolata Cherso dal mare. La torre dell’Orologio e la losa (loggia) ingresso della cittadina, collezione dell’Autrice. Contando di aver fatto cosa gradita, ecco a voi le tormentose, ma appassionate parole di Annamaria Zennaro Marsi. (a cura di Elio Varutti)

Ogni anno, già dai primi giorni di agosto, a Cherso, ci si preparava al consueto pellegrinaggio verso un affascinante santuario pieno di ex voto, posto su un colle, sopra un mare spesso burrascoso e di un blu cupo e profondo, dedicato alla Madonna di S. Salvador.

Cercavo già di procurarmi 3 sassolini lisci e rotondi da inserire nella “scarpetta della Madonna”, una piccola cavità a forma di scarpa che si trova lungo il sentiero che conduce alla chiesetta. Quell’anno, era il 1948, nella mia famiglia avvertivo una forte tensione. I miei genitori parlottavano tra di loro continuamente, spesso nervosamente, la nonna aveva gli occhi arrossati, la mamma le guance cadenti e si alternavano momenti di mutismo assoluto a discussioni e alterchi più vivaci. Anche i pasti erano frettolosi e poco curati. Un vocabolo a me sconosciuto, di cui non comprendevo il significato, veniva spesso ripetuto: “Opzione”.  Era come se si attendesse un documento per una soluzione desiderata, ma molto sofferta.

Io giocavo in Pra’, davanti a casa, cercando di catturare le imprevidenti cicale che si avventuravano a frinire nelle parti basse dei tronchi dei lodogni. [Celtis australis, nome comune ‘lodogno’, o bagolaro, è una pianta delle Ulmacee, NdR]. Ero turbata. Il clima familiare cominciava ad angosciarmi. Eppure stavano, se pur lentamente, sfumando il ricordo della mitragliatrice piantata davanti a casa, il terrore delle pallottole che sibilavano verso la soffitta, le fughe all’alba per rifugiarci nella cantina più sicura di zio Mate, l’orrore dei corpi distesi sotto il volto e nelle canisele [strettoie], l’acquattarsi fulmineo sotto il figher [fico, l’albero] per non essere individuati dai cupi e rombanti aerei che passavano bassi sulle nostre teste. Non capivo l’improvvisa disarmonia nella mia famiglia e i miei perché restavano senza risposta.

Un mattino vidi arrivare mio padre con delle assi di legno numerate, che cominciò a inchiodare, ingabbiando la vetrina, poi la credenza, il tavolo, le sedie, mentre mia madre avvolgeva nelle intimele (federe) alcuni degli oggetti più fragili, riponendoli con cura nel baule. Ogni martellata era una ferita, le cicale smettevano di frinire, mia sorella tremava e io avrei voluto, come aveva fatto il gatto spaventato, rifugiarmi nel sottoscala, chiudere gli occhi e tapparmi gli orecchi. Tutta la casa era sottosopra e noi sconvolti e pronti per la partenza.

All’alba del 14 agosto il vaporetto si staccò dal molo Gobbo di Cherso. La nonna non aveva voluto venire con noi, non ce la faceva a lasciare la sua casa, la sua terra e la sua isola. Dal mare vedevo le case diventare sempre più piccole e indistinte, finché della nonna rimase solo un punto nero.

Scorgevo ancora le strisce irregolari delle masiere [muretti] sulle colline e il mio porto sempre protettivo e accogliente che, dopo averci abbracciato e dato sicurezza per tutta la vita, ora spalancava bruscamente le sue braccia e ci scaraventava verso un ignoto imprevedibile e minaccioso. Poi, quando il vaporetto ebbe virato a destra dopo la lanterna, Cherso venne inghiottita con tutta la sua baia e, con “Lei”, d’improvviso il mio nido divelto, abbattuto e frantumato per sempre. Percepivo, con angoscia, l’irrevocabile luttuoso distacco dalla mia infanzia e da tutti i miei sogni!

Addio Cherso, non ti vedrò mai più! Passando davanti alle chiesette di San Nicolò, sotto San Salvador e San Biagio, mia madre si fece il segno della croce e noi la imitammo automaticamente. Il cielo era limpidissimo, soffiava un borino che si faceva sempre più gagliardo, le ombre scure sulla costa dell’isola contrastavano con il bagliore rosato, accecante della sponda opposta. Il mare era di un blu intenso e molto agitato, profondo e cupo. Immaginavo feroci pescecani e vortici tumultuosi che inghiottivano pescherecci e pescatori, come avevo visto nei dipinti degli ex voto a San Salvador, e cominciai a rabbrividire.

Fiume ci accolse con il suono delle campane del mezzogiorno e con un odore sgradevole e nauseante di ferro arrugginito e di carbone misto ad asfalto rovente. Vidi tante case, alte e grigie, con tante finestre tutte uguali e, solo allora, mi accorsi dei bagagli. Mio padre s’incamminò reggendo sulla spalla sinistra una valigia legata con dello spago e sul braccio destro un sacco. Lo seguiva mia sorella, segaligna e in piena crisi adolescenziale, con un fagotto che alternava da uno all’altro braccio, poi mia madre con un capiente e gonfio borsone e … io, che cercavo di ripararmi dalla calura dietro ad un lungo muro, a quell’ora, avaro d’ombra. Una mesta processione nell’afa agostana per raggiungere la stazione ferroviaria.

Avvertivo un senso di nausea, ma sbocconcellai ugualmente il panino che mia madre mi aveva teso assieme ad una pesca che, generosamente, l’alberello dietro la porta dell’orto ci aveva regalato, solo quell’estate. Il treno giunse dopo parecchie ore e credo di essermi addormentata subito sul sedile di legno, lucido e consunto, perché ad un certo momento mi sentii trascinare giù.

Eravamo giunti al confine di Divaccia [dal 1991 è in Slovenia; al confine con Fernetti che era nel Territorio Libero di Trieste], dove, come ci avevano riferito, saremmo stati spogliati e visitati per controllare se avevamo armi o qualche documento sospetto. Il buio fitto della notte ventosa era rischiarato solo dalla luna e dalle stelle. Tremavo dal freddo, nonostante indossassi il bel golfino bianco di lana caprina, molto pruriginosa, con i bottoncini a forma di cappellino, di cui andavo fiera. Cominciai a lacrimare, ma nessuno era in grado di consolarmi. Solo mio padre, forte e temprato da una vita durissima e da un precedente e ben più tragico esilio, cercava di rincuorarmi con il suo dolce sorriso.

Giungemmo a Trieste il 15 di agosto, prima che albeggiasse. Ci avviammo in un silenzio amaro e opprimente lungo il viale Miramare. Le nostre ombre scure e disperate spezzavano quelle degli alberi che scorrevano lungo il muro della ferrovia, fino a raggiungere il giardinetto da dove si potevano scorgere le finestre degli zii, a me sconosciuti, che si erano offerti di ospitarci, prima di essere accolti al Silos [un disagevole Centro raccolta profughi]. Mia madre mi aggiustò i capelli e mi rifece la “banana” per rendermi presentabile al loro risveglio, non prima delle ore 8.

La zia salutò per primo il suo amato fratello, poi mia madre, mia sorella e, rivolta a me, chiese stupita: “Perché piange questa bambina?”. Ah, quanto avrei preferito percorrere il sentiero ripido, sassoso, assolato affiancato dai rovi e arrivare accaldata e stanca, magari scalza, a San Salvador!

Lassù sarei stata accolta dal refrigerio dell’ombra profumata di pini, di ginepri, di salvia e di salsedine, dall’abbagliante trasparenza della luce e della speranza, dall’abbraccio consolatorio della preghiera. Mi accorsi, in quell’istante, che non stavo vivendo un incubo, ma una realtà che mi aveva trascinato sull’orlo di un burrone tetro e vorticoso, nel buio più cupo, sgomento e disperato, nell’ignoto più sconfortante, pauroso e imperscrutabile.

Mi chiedevo angosciata: “Perché tutto questo? Perché?”. Pensavo alla nonna improvvisamente sola, disperata e abbandonata che sicuramente piangeva come me e sentivo la sua voce afflitta e distrutta che mi sussurrava: “Piangi, piangi perché le lacrime chiamano gli angioletti pronti ad aiutarti ad addolcire tutte le sofferenze e i tuoi dolori”. Ogni pensiero era una lacrima e tante lacrime per tanti addii!

“L’abbandono è lo strale che l’arco dell’esilio pria saetta” (Dante, Paradiso, XVII). È una lacerazione profonda che condiziona il tuo futuro per sempre, che annienta e distrugge qualsiasi speranza, è un finale pauroso che ti gela e vuota l’anima.

Annamaria Zennaro Marsi

Note – Autrice principale: Annamaria Zennaro Marsi. Progetto e attività di ricerca: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine.  – orario: da lunedì a venerdì  ore 9,30-12,30.  Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web:  https://anvgdud.it/